L’inchiesta

A parere dello scrivente difensore la vicenda processuale determinante la condanna all’ergastolo ostativo (fine pena mai) di Salvatore Ritorto, pur nel necessario rispetto della decisione giudiziaria, divenuta irrevocabile in Italia, appare incredibile ed inquietante, tanto che il collegio difensivo, nella sua variegata composizione, non ha mai terminato di condurre, nei limiti dei mezzi e delle poche risorse disponibili, indagini difensive e legittime iniziative volte alla riapertura del caso in esame, ciò logicamente al fine di dimostrare la estraneità dei cittadini condannati.

II processo contro Salvatore Ritorto è stato – tra i tantissimi in Italia – un processo cosiddetto “indiziario” (assenza di prova diretta di commissione del reato e ricorso ad una serie di elementi congiunti e unitariamente valutati ai fini del giudizio di responsabilità), per come enuclea l’art. 192 del vigente codice di procedura penale, ciò sulla scorta di una attività investigativa portata all’attenzione dei decidenti e sulla quale è stata effettuata, dagli stessi, una attività di operazione e mediazione intellettuale, in virtù del principio del libero convincimento.

In estrema sintesi, un primo collaboratore di giustizia dichiarava di aver sentito parlare da terzi del detto omicidio successivamente all’evento ed in seguito operava una “illuminante” postuma deduzione circa il coinvolgimento del Ritorto.

Tali dichiarazioni successivamente venivano avallate da un secondo collaboratore di giustizia, il quale, pur non avendo partecipato all evento omicidiario, riferiva la delazione che il Ritorto gli avrebbe fatto pochi minuti dopo l’omicidio, circa la di lui responsabilità, la unione tra prima chiamata (in reità) e seconda chiamata (in correità), supportata da riscontri di carattere logico – alternatisi nel corso del processo, tutti comunque privi della richiesta “certezza” – conducevano alla condanna all’ergastolo.

[Rosario Scarpa, postfazione di Salvatore Ritorto, Il prigioniero libero, Sensibili alle foglie, 2015]

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57° giorno di sciopero della fame di Alfredo Cospito

Questo breve post, come quelli che lo precedono e quelli che seguiranno, sono un contributo alla campagna per l’eliminazione del regime del 41bis e dell’ergastolo ostativo.

Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

Queste pagine vogliono essere un cotributo di solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Anna, Juan e Ivan, contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

Qui una parzialissima rassegna stampa sullo sciopero della fame di Alfredo

dicembre 2022

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In Italia la giustizia non funziona

“In Italia la giustizia non funziona […]. Non funzione neanche per l’ultimo dei suoi cittadini che quando ha la sfortuna di varcare la soglia del carcere può vedere passare dei mesi prima che qualcuno si accorga di lui e gli indichi qual è la sua posizione e soprattutto qual è il suo percorso (difficile) per uscire da quella realtà.

Se è vero che il ministro Castelli vuole verificare il grado di efficienza di ogni istituto di pena, assegnando loro un voto, quale sarà il verdetto per la Casa Circondariale di Bassone di Como?

Un sito dove il direttore […] non risponde mai alle lettere che i detenuti ingenuamente gli indirizzano, dove gli educatori e gli assistenti sociali incontrano i detenuti dopo un anno da quando gli sventurati hanno varcato le mura del carcere, nonostante ogni individuo abbia diritto a vedersi redatta una relazione che comprenda tutta la sua storia giudiziaria, ma soprattutto una “relazione di sintesi” che gli offra la possibilità di un percorso di reinserimento e di recupero sociale e professionale.

Ebbene a Como tutto ciò non esiste, è lettera morta, è sospeso come se questo carcere fosse avulso dal resto dell’Italia. Un carcere dove i moduli per le cosiddette ‘domandine’, massima espressione dell’alienazione dei carcerati, e pur tuttavia unico mezzo di sopravvivenza quotidiana, non sono mai sufficienti, dove in biblioteca non si può sostare, dove ammalarsi è impossibile perché non si somministrano cure, o meglio solo quando il malato è guarito o morto.

In questo contesto qualcuno decide anche atti estremi, per protesta, o per non accettare condizioni inumane, inutilmente vessatorie, coercitive e cieche: qualcuno dunque si toglie la vita impiccandosi alla finestra della sua cella, faticando anche per arrivare a questo risultato, perché lo spazio è minimo, e tutto va calcolato al millimetro anche nella tragedia.

Giuseppe Romeo, 52 anni, in attesa di giudizio, si è tolto la vita la mattina di lunedì 26 maggio 2003.

Era esausto: le sue domande d’incontro con il direttore, con gli educatori, non venivano mai evase, il vuoto s’era impadronito della sua vita; niente risposte, niente lavoro, il nulla.

La sua cella è stata ovviamente sigillata, il magistrato incaricato dall’inchiesta non è ancpra giunto presso l’istituto di pena, la salma dal povero Romeo si trova ancora da qualche parte nell’infermeria del carcere: ma è normale, siamo al Bassone”.

Questo documento, fatto pervenire alla stampa, naturalmente non è stato pubblicato.

[Annino Mele, MAI, Sensibili alle foglie, 2005]

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Questo breve post, come quelli che lo precedono e quelli che seguiranno, sono un contributo alla campagna per l’eliminazione del regime del 41bis e dell’ergastolo ostativo.

Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

Queste pagine vogliono essere un cotributo di solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Anna, Juan e Ivan, contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

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dicembre 2022

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Three strikes

La gloriosa opportunità di esibire il primo esempio di un “ergastolo” di nuovo tipo è toccata nel 1994 allo stato di Washington. Si trattava di Larry Fisher, 35 anni, da Bellingham, un “balordo” che era appena dodicenne quando conobbe per la prima volta il carcere. Il suo primo reato: un furto da 115 dollari in un negozio di panini. Larry aveva in tasca, al momento del crimine, un coltello a serramanico che non ha tuttavia mai estratto. Edi il suo “record penale” parla di due analoghi gesti: 360 dollari sottratti con minacce verbali al nonno nel 1985, e 100 dollari rapinati, esibendo un cacciavite, in una pizzeria nel 1988. In tutto 575 dollari e neppure una goccia di sangue. Tanto è bastato a Larry per guadagnarsi “il diritto a farsi mantenere a vita dal governo”.

Le leggi statunitensi, mutuate dal gioco del baseball, che prevedono la condanna all’ergastolo dopo tre reati: three strikes, “tre falli e sei fuori”, continuano a mietere vittime soprattutto fra i teenagers emarginati delle grandi metropoli e ad ingigantire il sistema penitenziario statunitense.

[Nicola Valentino , introduzione a Annino Mele, MAI, Sensibili alle foglie, 2005]

Questo breve post, come quelli che lo precedono e quelli che seguiranno, sono un contributo alla campagna per l’eliminazione del regime del 41bis e dell’ergastolo ostativo.

Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

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dicembre 2022

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Quanto dura un ergastolo

Per l’ergastolano la libertà non sarà mai più un diritto, tutt’al più potra essere una concessione.

Come i vecchi ergastolani speravano nella grazia, i nuovi sperano nella liberazione condizionale, trascorsi 26 anni di reclusione. Ma la liberazione condizionale non è un diritto, è una concessione, una possibilità, la cui realizzazione dipende dalla discrezionalità dell’autorità giudiziaria preposta a sorvegliare l’esecuzione della pena, che osserva e valuta il comportamento del condannato e spesso misura il suo pensiero. Gli ergastolani vivono pertanto la consapevolezza di non poter mai decidere della loro esistenza. Essa è infatti, fin dal momento della sentenza, nelle mani di un’autorità che la gestisce in base a procedure imprevedibili. Questa modalità discrezionale è un altro preciso dispositivo che qualifica il potere sull’ergastolano come un potere assoluto.

Come la quotidianità della reclusione descritta da Annino Mele ci illustra: se anche il recluso si comporta così come l’istituzione vuole, non è detto che a ciò corrisponda un miglioramento della sua condizione, né tanto meno che si apra una prospettiva di libertà.

Lo sanno bene la stragrande maggioranza delle persone recluse da più di 26 anni all’ergastolo che, pur godendo già della semilibertà, e pur aderendo ai criteri richiesti per l’ottenimento della liberazione condizionale, la inseguono ancora come un miraggio. Sta di fatto che a questo potere l’ergastolano non può nemmeno sottrarsi perché il suo sogno di libertà, non avendo lui alcun fine pena, dipende unicamente da una concessione istituzionale.

Il recluso all’ergastolo dipende totalmente dall’istituzione. Si potrebbe dire che se con la pena di morte lo Stato toglie la vita ad una persona, con l’ergastolo se la prende. Ci sono inoltre reclusi condannati per alcune categorie di reato per le quali attualmente non è prevista la concessione di nessun tipo di beneficio; per questi reclusi la condanna all’ergastolo risulta fissa e immodificabile.

Il mito dell’ergastolo virtuale sembra essere stato creato per salvaguardare l’istituto dell’ergastolo dalla contestazione della sua palese incostituzionalità. Indicando l’art. 27 della Costituzione italiana la funzione rieducativa della pena, non era possibile mantenere l’ergastolo come pena immodificabile, allora si è pensato di camuffarlo, ampliando il sistema delle concessioni.

Gli storici ed i giuristi più critici hanno evidenziato però questo mascheramento: “Per fingere di andare avanti siamo dovuti tornare indietro, cioè per fingere di adeguarci, di eliminare l’ergastolo, lo abbiamo dovuto trasformare così come lo concepiva la Chiesa: abbiamo tolto la fissità della pena. La Chiesa, quando condannava all’ergastolo, lasciava la persona in carcere a sua completa disposizione.

Così è oggi: la libertà di un ergastolano dipende dal giudice di sorveglianza, e prima ancora, dal personale di custodia che è quello che concretamente ‘vede e fa’. Ecco perché dico che per fingere di andare avanti siamo tornati indietro. Per poter costituzionalizzare l’ergastolo, dalle pene fisse ideate dall’illuminismo, siamo tornati alle idee arbitrarie dell’inquisizione”.

[Nicola Valentino, introduzione a Annino Mele, MAI, Sensibili alle foglie, 2005]

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Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

Queste pagine vogliono essere un cotributo di solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Anna, Juan e Ivan, contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

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dicembre 2022

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Rivolte nelle carceri 2020

Le rivolte nelle carceri del marzo 2020 – sono costate la vita a 13 detenuti

In questi giorni si è concluso lo stato di emergenza al quale siamo stati sottoposti per oltre due anni. Per noi ha il sapore di una liberazione.

Per i detenuti, invece, sarà il graduale ritorno a uno stato permanentemente emergenziale fatto di mortificazioni e infantilizzazioni, dove per imbucare una lettera, per farsi una doccia, per prendere l’ora d’aria si deve chiedere il permesso ad un “adulto” in divisa; un mondo fatto di tre metri per quattro, dove l’unico odore respirabile è l’odore prodotto dai propri corpi; dove i tre colori della cella sono gli unici colori del mondo; dove non esiste natura se non il freddo cemento; dove non si possono mai guardare le stelle; dove la morte si vive ogni giorno, e dove ogni giorno si muore un po’.

[Sara Manzoli, “Morti in una città silente” – maggio 2022, Sensibili alle foglie]

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Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

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Forse non tutti sanno che

… dal 1992 in Italia è in vigore un particolare trattamento penitenziario che prevede che il detenuto stia sempre isolato, con solo due ore d’aria al giorno, in compagnia di un massimo di tre persone. La cella è dotata esclusivamente degli arredi essenziali: letto, tavolo, armadio, sedia/sgabello, specchio in plexiglass e televisore agganciato al muro, che può peraltro trasmettere solo canali nazionali; persino le pentole hanno dimensioni prestabilite e non possono essere più di due; non si possono ricevere dall’esterno generi alimentari che prevedano cottura; le foto appese in cella vanno autorizzate dalla direzione; non si possono tenere più di quattro libri ed è vietato riceverli per posta, si possono solo prendere in biblioteca od ordinandoli dal carcere; non sono ammessi quotidiani nazionali dell’area da cui si proviene; non sono concessi gli incontri con i garanti, salvo il garante nazionale; sono vietate le iscrizioni ad associazioni e partiti. Il gruppo di socialità, di massimo quattro persone, è scelto dalla direzione del carcere, che decide quindi con chi avere rapporti e quando eventualmente reciderli. Al di fuori dal gruppo assegnato è vietato l’accesso a spazi comuni e qualsiasi forma di contatto con gli altri detenuti. I colloqui con i familiari sono limitati ad uno al mese e anche il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio. Esclusivamente per coloro che non effettuano colloqui, e dopo sei mesi di reclusione, può essere autorizzata una telefonata mensile della durata di dieci minuti con i familiari e conviventi che va fatta dal carcere più vicino al luogo di residenza. I colloqui sono video e audio registrati. La posta in entrata e in uscita è sottoposta a visto di censura. La partecipazione ai processi è prevista esclusivamente a distanza in videoconferenza creando enormi difficoltà alla difesa e una progressiva scomparsa della presenza attiva dell’imputato e dell’imputata in aula.

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Si tratta per lo più di brani tratti da libri di cui consiglio comunque l’acquisto e la lettura integrale. La mia speranza è che questi piccoli estratti riescano, per quanto possibile, a dare un’idea di quel che si può fare in nome dell’amministrazione della giustizia, in particolare quando si sceglie di intervenire a posteriori ossia mirando l’autore dell’atto indesiderato, senza il minimo interesse alle ragioni, personali o sociali, della genesi di tali atti.

Evidentemente la ricerca delle cause rischierebbe di sollevare delle questioni troppo scomode o complesse per gli equilibri del progresso borghese.

Queste pagine vogliono essere un cotributo di solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito, Anna, Juan e Ivan, contro il 41bis e l’ergastolo ostativo.

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dicembre 2022

0mmot

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non solo formiche

Il signore delle formiche

di Gianni Amelio (2022)

Non stiamo qui a fare tutta la storia, che sarebbe lunga, del processo per plagio ai danni di Aldo Braibanti, intellettuale comunista, omosessuale che fece un po’ sapere di sé ai tempi – nella seconda metà degli anni sessanta – e per poi scomparire dalla memoria collettiva fino a che prima Carmen Giardina e Massimiliano Palmese con il film/documentario “Il caso Braibanti” (2020) ed ora Gianni Amelio con “Il signore delle formiche” ce lo riportano alla memoria.

Chi può veda il film, e chi è molto curioso legga anche il saggio di Eco “Sotto il nume di plagio” in Il costume di casa, evidenze e misteri dell’ideologia italiana negli anni sessanta, edito da Bompiani nel 1973.

Amelio ci racconta due storie (più una) e mezzo, e giustamente abbisogna di tempo, il film dura 130 minuti e ci stanno tutti. La prima storia è quella appunto del processo Braibanti: interrogatori, udienze, arringhe. La seconda è quella di Ettore/Giovanni (il plagiato) che venne letteralmente sequestrato dalla famiglia e messo in manicomio per essere curato da ‘quella malattia’.

La mezza storia è quella, solo accennata, di Ennio Scribani, che, al momento, solo sua cugina e Gianni Amelio conoscono: Graziella ad un certo punto dice ‘io so tutto’, e noi ci chiediamo ‘ma che sa’?

La terza è quella dello stesso regista, omosessuale anche lui, che certe ruvidità senz’altro le conosce.

Con tanti ingredienti potrebbe essere difficile orientarsi e forse, in effetti, ogni tanto ci si confonde un po’ ma nella sostanza la trama è chiara: la vicenda processuale vien fuori tutta con i suoi peggiori connotati, quella umana, per quanto possibile pure – si tratta qui di una ricostruzione puremente immaginifica -.

Gli attori: Leonardo Maltese (Ettore/Giovanni) è bravissimissimo nell’interpretare il duplice personaggio del prima e del dopo. Luigi Lo Cascio (Aldo) sa essere antipatico quanto basta per non risultare simpatico (e ci sta), Elio Germano (Ennio) è fin troppo a suo agio, così le figure femminili Anna Caterina Antonacci (mamma di Ettore/Giovanni), Sara Serraiocco (Graziella) e Rita Bosello (Susanna) sono perfette.

Qualche appunto, però, si può fare. Per primo Giovanni Sanfratello, che mai si è chiamato Ettore, e mai lo sarebbe stato. Perché se Aldo è Aldo, Giovanni non è Giovanni? Poco importa direte, appunto per questo pare strano.

Quindi il decoro, la dilagante mania del decoro. Nel film, che pure tratta una vicenda ‘sporca’, tutto è pulito, troppo. Le camicie pulite, le facce pulite, i muri puliti. Financo le sedie, quattro sedie, nella camera ardente di Susanna, sono sì di legno e vimini ma nuove di pacca e quando piove neanche ci si bagna. E’ una brutta deriva del cinema di oggi di volerci togliere lo sporco della vita reale, non ne facciamo colpa ad Amelio, fan quasi tutti così. Certo Lo Cascio ha (quasi) sempre la barba dei due giorni, Giovanni/Ettore, nella sua vita ‘dopo’, ha i denti gialli. Ma lo sfondo, il film in cui loro si muovono, è lindo, troppo.

Così è, per finire, con la stanza dell’alloggio di Roma. Una squallida e mal arredata pensione medio borghese con perfino la pensionaria che scherza se i due (‘zio e nipote’) volessero usare un letto matrimoniale o due letti singoli.

Il testo di Eco, che senza-alcun-dubbio Amelio ha letto, riporta la minuziosa descrizione che gli agenti della P.S. fanno quando compirono la perquisizione nella casa dei due: un appartamento che “misura metri 6 per 3,50 circa. Sulla parete laterale destra rispetto a chi entra si notano appesi 29 quadri, noti col nome di ‘Colleges’ (montaggi e costruzioni con gli oggetti più strani come pezzi di vetro, molle per poltrone, pezzi di pietra, viti, bulloni, ecc.), appartenenti al Braibanti. Una mensoletta con 6 pennelli, un bicchiere e 13 pennelli, colori acquarello, stampo traccia linee, squadra, boccetta fissativo per pastelli, scatola colori acquarello, china per disegno, vaschetta porta tinta colori a tempera.” (e via discorrendo). Cioè persino gli agenti di P.S. si erano accorti che in quella stanza c’era qualcosa di più di due omosessuali con una marcata differenza d’ètà. I letti, poi, dicono gli agenti, erano due, poco importa, che come scrive l’appuntato Santavenere Guido, “Si precisa che i due lettini sono l’un l’altro prospicienti”. Perché omettere tutto questo?

Tornerei quindi a Eco e al fatto che la questione non è solo quella lì, che c’è un non detto nello strumentario comunicativo che usiamo che va sempre tenuto a bada, e che non basta, per questo, mettere Emma Bonino come testimonial.

Però il film va visto e la vicenda conosciuta, è il nostro passato ma anche il nostro presente.

Umberto Eco nel suo saggio vuole spiegare come dietro la scelta delle parole possa nascondere un giudizio o un’intenzione e come questo sia successo nel caso dell’iter processuale contro Aldo Braibanti, a suo discapito. Un utilissimo armamentario per difendersi dall’”ideologico quotidiano” è fornito dalla più che ventennale trasmissione radiofonica di Felice Accame e Carlo Oliva ‘La Caccia’ ospitata da Radio Popolare negli anni 1986/2012. (https://archive.org/details/@officina_carlo_oliva)

Qui, più modestamente, per evidenziare come la questione del pre-giudizio, insita nel corpo terminologico della procedura, sia ancora aperta, vogliamo riportare un passo dall’ordinanza cautelare nei confronti di un minore straniero incensurato, senza pendenze di alcun tipo, accusato (e ammittente) del furto di una collanina:

Le modalità esecutive della condotta predatoria, unitamente alle circostanze temporali e spaziali esistenti al momento del fatto, evidenziano una particolare dimestichezza ed abitualità nella commissione dei reati della stessa specie di quello per cui si procede.

L’indagato è un soggetto privo di riferimenti sul T.N. inserito in una struttura comunitaria nella prospettiva di una positiva integrazione nel tessuto sociale, obiettivo che, considerata la condotta di cui il giovane si è reso autore, appare difficilmente raggiungibile.

La personalità del minore e la tipologia di reato commesso, per propria natura destinato a suscitare particolare allarme sociale, appaiono sintomatici di una marcata inclinazione alla trasgressione della legalità e rendono fondato un alto rischio di reiterazione criminosa.

Il sottolineato è nostro. Il giudice in questione, quando scriveva queste considerazioni non aveva ancora mai incontrato il ragazzo.

Ommot 25.09.2022

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Come faremo a spiegare

Come faremo a spiegare che il crescente pattugliamento del territorio da parte della forza pubblica fa male?

Come faremo a spiegare che i ragazzi – soprattutto i ragazzi – e gli stranieri – soprattutto gli stranieri – sono costantemente vittime dell’arroganza, della protervia e della violenza verbale e talvolta anche fisica di agenti impegnati in ronde che hanno lo scopo di prevenire qualcosa che anche a loro sfugge?

Come faremo a dire ad un giovane tunisino di 15 anni, in Italia senza genitori, ospite di una comunità, che ‘in questo periodo la polizia sta prendendo di mira in particolare i tunisini’ e che quindi è meglio che non frequenti quelli che sono gli unici luoghi di aggregazione in città? Con che faccia lo diremo senza saper pensare alcuna alternativa?

Come insegneremo ad un giovane, di qualsiasi nazionalità, che se gli agenti gli mettono le mani nelle mutande o se li minacciano di una perquisizione integrale “nel bagno del bar qui vicino” non deve (a) incazzarsi né (b) spaventarsi “troppo”, perché non si può vivere nella paura?

Chi ci ascolterà quando proveremo a dirlo?
Quanti capiranno la gravità della cosa?

L’influencer si lamenta perché il suo amico è stato derubato, il sindaco risponde chiedendo ed ottenendo che siano aumentate di 500 unità le forze dell’ordine, questo è il teatro in cui viviamo.

Chi capirà che così ci si sfracella contro un muro?
Che in questo modo si fa e ci si fa molto ma molto male?

ommot 13 ago 2022

Grido d’allarme, da Prima Pagina, Rai3, 11 agosto 2022

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